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giovedì 17 maggio 2012

Caltanissetta ...


 

  Tra civiltà contadina e civiltà dello zolfo



Lo spazio politico, amministrativo ed economico nel quale urbanisticamente Caltanissetta si evolve tra civiltà contadina e dello zolfo si può attribuire a  periodi definiti, caratterizzati da un solo emergente e dirompente fenomeno: la Rivoluzione industriale. Un fenomeno che trasforma tutto in poco tempo, in agricoltura, nei trasporti, nella manifattura, nella finanza, nelle innovazioni e nelle scoperte tecniche e tecnologiche, insomma, in una concomitanza di fatti e fenomeni che  con la loro eccezionalità concorrono all’affermazione di una nuova società.
Il primo periodo politico-economico che ci interessa, in cui Caltanissetta comincia a trasformarsi sensibilmente, è dato dall’amministrazione pre-unitaria,  “aristocratica”,  con la dominazione della famiglia Borbone.
Con questa famiglia, Caltanissetta, per la sua fedeltà, diventa una delle 7 capovalli di Sicilia con i distretti di Piazza Armerina e Terranova (Gela) e sede di Tribunale Civile e Gran Corte Criminale. Riconoscente, e per rimanere la fedelissima,  non parteciperà ai moti rivoluzionari contro la stessa famiglia Borbone, subendo, per questo (nel 1820), stragi e saccheggi dai comuni del suo entroterra (San Cataldo, Villalba, etc.) che da questa dominazione si sentivano oppressi.
Nel periodo borbonico ha inizio la trasformazione del feudo, così come avviene in altre parti d’Europa,  da mezzo per produrre valori d’uso  a mezzo per ottenere denaro. I rapporti feudali basati sullo scambio semi-naturale o naturale si tramutavano così in un nuovo scambio dove compare la moneta. Comincia ad emergere un ceto sociale dotato di capitale che investe nella terra affittando il feudo. Si affaccia sulla scena dell’agricoltura tra il nobile-proprietario e il salariato, l’affittuario-imprenditore, si sancisce una corrispondenza economica data dal capitalismo nelle campagne tra rendita/nobile (proprietario), profitto/affittuario (imprenditore) e salario/salariato (operaio).
Carlo III di Borbone
In Sicilia re Carlo III di Borbone (nel 1737) tenta di fare sviluppare l’economia chiamando gli ebrei — in quanto portatori di capitale ma che dopo pochi anni saranno scacciati perché portatori di sola usura — e intervenendo, oggi si direbbe con una partecipazione statale, con una regia compagnia commerciale allo scopo di promuovere l’attività manifatturiera siciliana. Adotta leggi protezionistiche sulle sete e fa in modo che per la Sicilia sia libera la loro produzione. In questo clima Caltanissetta appare a Balsamo[1] come una città dove la lavorazione a domicilio è abbastanza sviluppata.
"pisatura" del grano
Caltanissetta, come Enna e Agrigento, risulterà utile al regime borbonico perché produttrice di zolfo, necessario come merce da esportazione nella bilancia del commercio con altri stati fuori dal regno delle due sicilie. In compenso, assieme alle altre città siciliane, sarà penalizzata nel pagamento del dazio per entrare con le sue merci in continente e sarà anche gravata da una tassa sul macinato, diversamente da quanto accadeva per le merci provenienti dal continente che erano senza dazio e dove era sconosciuta la tassa sul macinato.
Alla cacciata dei borboni segue uno Stato Unitario “liberal-conservatore”, con la dominazione della famiglia Savoia, in cui l’unificazione dell’Italia avviene per iniziativa della borghesia del Nord come “estensione dello Stato piemontese”. È questo per la Sicilia anche il risultato della definitiva crisi della monarchia borbonica, il cui crollo non è sorretto né dalla borghesia (agraria e industriale) la quale ha aspirazioni libero-scambiste ed anela di unirsi al Nord costituzionale per ricavare vantaggi economici e forse anche una certa fetta di potere politico, né dal proletariato che tenuto in condizioni miserrime e quindi non  in grado di organizzarsi se non in bande, per garantirsi la semplice sopravvivenza. A Caltanissetta il Risorgimento si annuncia il 2 luglio 1860 con la colonna dei garibaldini comandata da Eber. 
Nelle campagne l’economia che si afferma è quella capitalistica con il gabellotto che ha preso definitivamente il posto del signore-proprietario. La mafia è la mano armata che fa capo a nuovi intermediari del profitto, che amministra la sua giustizia di parte, in assenza dello Stato, nella difesa del latifondo e nelle relazioni che il  capitalismo delle campagne ha con il territorio. Una fitta schiera di parassiti del feudo (soprastanti, gabellotti, procuratori, curatoli, massari)  inaugura nel Vallone (in provincia di Caltanissetta) i nuovi contratti agrari detti  a strasatto.

"Burgisi"
Col nuovo Stato liberale, dunque, e sotto l’imperio della nascente mafia, i ‘mezzadri’, per poter coltivare un pezzo di terra col ‘privilegio’ dei patti vigenti ai tempi dei Borboni, dovevano assoggettarsi a coltivarne un altro, altrettanto esteso, per pochi spiccioli o addirittura ’gratis et amore’! …[2]

Il regime economico passa dal liberismo del primo ventennio unitario al protezionismo. L’agricoltura italiana è in crisi e il Mezzogiorno ne risente molto, più che in altre parti d’Italia, l’abbandono delle campagne e l’emigrazione sono sostenute, anche se in qualche realtà si tenta di convertire la granicoltura in coltura arborea.
Nello scenario dell’economia nissena la miniera è complementare al latifondo e ad esso praticamente corrispondente. Le figure che dominano sono: il proprietario del fondo dove si trova ubicata la miniera, il gabellotto (finanziatore), gli operai (zolfatai). Il contratto dell’affitto, tra il proprietario e l’affittuario, in vigore sino al 1820,  passa ora alla gabella a staglio o alla società, dove cambia, oltre alla forma di contratto, anche la figura dell’affittuario, che non è più quella delle compagnie di maestri  e/o di zolfatai  ma quella dei notabili della città da soli o associati. Nel 1891 nascono  i Fasci siciliani. Il governo Giolitti li tollera, il successivo governo Crispi li reprime. Il 13-1-1894, il prefetto di Caltanissetta De Rosa scioglie i Fasci dei Lavoratori in tutta la provincia.
In Sicilia gli animi si accendono per una resurrezione siciliana, viene fondato il Movimento autonomista siciliano  (1919)[3].
Preoccupata dal “pericolo bolscevico” la borghesia industriale e agraria favorisce le condizioni per  la formazione di uno Stato Totalitario “fascista” il quale si dà da fare per mutare le caratteristiche di fondo dello stato liberale. Si instaura una realtà economica dominata dall’autarchia, con forti squilibri territoriali (città/campagna, Nord/Sud).Produzione di beni e consumi debbono riferirsi rigorosamente a prodotti italiani.
Galleria di miniera


Il fenomeno reazionario e antimeridionalista che si manifesta durante il regime fascista fa nascere la voglia di separatismo[4]  nei siciliani. Nella sua ambiguità, questo movimento, darà anche spazio a fascisti pentiti, opportunisti, baroni, notabili e quanti altri avevano dato una mano al  blocco agrario.
Borgo rurale Santa Rita



Le miniere, nell’economia generale del nisseno, mantengono la loro produzione anche se più rivolta al consumo interno che non all’esportazione, compensando la crisi agricola solo apparentemente. In questa economia i Borghi rurali (Petilia, Cascino, Santa Rita) rappresentano il fiore all’occhiello che compare qua e là nel territorio per offrire una immagine di agricoltura fiorente,  e le case per gli zolfatai  di Terrapelata si configurano come un intervento sociale del regime.
  Si arriva all’amministrazione Democratica “repubblicana” caratterizzata dalla questione meridionale (sempre attuale), dal boom economico, dall’emergenza città e dalle "mani sulla città". I conflitti sociali si acuiscono con le lotte operaie e contadine per migliori condizioni di vita (sicurezza nelle miniere, migliori salari) e per la riappropriazione del bene di produzione (la terra ai contadini!), mentre la borghesia urbana si accentrerà sempre più nell’area dell’amministrazione pubblica legandosi ai traffici del terziario, ad attività finanziarie, all’edilizia. Le miniere, nel panorama dei nuovi interessi economico-finanziari, in Sicilia, cesseranno le loro attività  con la totale perdita dei posti di lavoro, dietro l’illusione di un  "progetto obiettivo" di promessa nuova industrializzazione mai realizzata. Lasciandosi dietro un esercito di baby  pensionati e una nuova "fame" di occupazione.
Il saldo sociale farà registrare forti correnti migratorie verso il Nord compensate da un inurbamento di nuova popolazione proveniente dalla provincia ma anche dai comuni dell’ennese e dell’agrigentino.
Miniera: cantiere di lavoro
A partire dalla ricostruzione post-bellica (anni cinquanta) esplode in città il fenomeno dell’edilizia residenziale (dal viale Trieste, a via Colajanni, a via Palmintelli, etc.) in alcuni casi preceduto dall'edilizia economica e popolare, apripista per un'urbanizzazione a spese della comunità pubblica. Si mette in moto il volano dell’economia del mattone: si costruiscono case, case fatte non solo per soddisfare il fabbisogno abitativo ma soprattutto per convogliare risparmi, verso il bene rifugio, il bene investimento. Il numero di stanze costruite finirà col superare il rapporto abitante/stanza (1:1)[5] senza per questo risolvere mai la questione abitativa.
 Unitamente allo sviluppo edilizio nell’evoluzione della città si accompagnerà anche l’altro grande fenomeno di questo secolo, il colossale sviluppo della motorizzazione privata con forte aumento della mobilità.
 Le conseguenze della, temporalmente ultima, stratificazione urbanistica sono sotto gli occhi di tutti.  La saturazione degli spazi di vivibilità, l’inquinamento, il traffico caotico, sono i nuovi termini di una città che con i suoi volumi e con gli spazi (si fa per dire!) non è né a misura d’uomo, né a misura d’automobile.