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lunedì 28 dicembre 2015

Caltanissetta e la miniera


IL MITO DELLE MINIERE


Molto ma molto in breve, delle miniere o meglio sull'industria dello zolfo che ha visto Caltanissetta in primo piano nel panorama mondiale, voglio aggiungere alcune cose, molto spesso dimenticate.
Dimora di un signore delle miniere nisseno
L'Ottocento, con le miniere ha fatto arricchire "i signori dello zolfo" quando anche il sottosuolo apparteneva al padrone della terra. Poco o niente hanno avuto i contadini, diventati minatori per necessità, che lavoravano alla "Ciaula" senza alcuna tutela, in cantieri sottoterra che si "coltivavano" con la tecnica di "camere e pilastri" (sic!). Gli incidenti e le malattie professionali accorciavano gli standard locali di vecchiaia, regalando così alla città vedove, orfani e una misera sopravvivenza ai superstiti.
I primi anni del Novecento hanno visto crescere un movimento sindacale dei lavoratori le cui giuste rivendicazioni hanno ridato dignità al lavoratore del sottosuolo e una forte coesione a tutto il mondo del lavoro nisseno.
La zolfara - R. Guttuso
Nel dopoguerra, con gli interventi di Stato e della Regione sono migliorate le condizioni di sicurezza e le pensioni dei minatori ma la produzione di zolfo già non serviva più. La chiusura conseguente delle miniere, in Sicilia, prevedeva il mantenimento delle più rappresentative per un uso turistico, e la occlusione degli accessi a tutte le altre rimanenti.
Nessuno si è ricordato però, che dintorni e piazzali delle miniere, da restituire alle contigue campagne, andavano bonificati.
Ciò che rimane da un punto di vista sociale è sotto gli occhi di tutti,  non è più riconoscibile una particolare connotazione di una “nissenità” riconducibile all'esercito di minatori che vi erano in città. Persino gli antichi oggetti più comuni usati per il lavoro del minatore, come la lampada a carburo, sono oramai una rarità da museo.  

Le "mitiche" miniere molto esaltate da tutti, un po' come l’eldorado di Caltanissetta, se ricordate immedesimandosi di chi vi ha lavorato, forse, non saranno più così mitiche. Anche i luoghi di quel duro e pericoloso lavoro, in un qualche modo così come si trovano sono solo non scelte, emblematiche del degrado e dell’incuria di cui vergognarsi. La cultura che potevano esprimere quei siti, invece, è più riconducibile ad un modello di civiltà del recupero dei luoghi da un punto di vista naturalistico che non ad un “muro del rin-pianto” per la scheletricità dei frammenti di un’archeoindustria oramai consegnata alla storia.

Giuseppe Cancemi