Se proprio vogliamo parlare dell’esteriorità
dell’architettura moderna, parliamone, ma non in senso storico-comparativo magnificando
questo o quell’architetto famosi e delle loro opere, tirando in ballo il
razionalismo italiano. L’espressione dell’architettura moderna dopo gli anni
50, in poche opere pubbliche (quando ci sono) non rappresenta il documento culturale che può
assolvere la preponderante percezione che si ha dell’edilizia contemporanea da
tramandare ai posteri. Parlo di edilizia, perché tale è oggi quanto si vede in
giro in fatto di opere. Sempre più dettata dalla speculazione e dal guadagno e
poco all’espressione colta dell’arte. L’anima invece delle architetture da
trasmettere che ha permesso agli autori del passato di esprimere lo stato
dell’arte di quell’epoca esiste sì in
qualche contemporaneo, ma è poco e ed è minimale nel presente delle opere del Novecento. Almeno nella caratterizzazione. Si sa che le
opere moderne di espansione urbana, raramente sono opere architettoniche. Le
città, nella loro stratificazione novecentesca appaiono tutte uguali: edifici, grandi
scatoloni, poggiati l’uno accanto all’altro. Composizioni architettoniche
(sic!), solo in volume, private dello spazio complementare che conferisce armonia
all’opera.
Monumenti celebrativi in città che monumenti non sono. Sempre più
spesso opere nane, in altezza
s’intende, che si confondono in mezzo alle auto sempre più numerose. Anch’essi,
nella collocazione, spesso privi d’anima.

Il Novecento, per dirla in breve specie dal dopoguerra in
poi, riconosciamolo, è stato mosso
sempre più da una inarrestabile speculazione edilizia e poco o niente di una
vera ricerca urbanistico-architettonica.