IL MITO DELLE MINIERE
Molto ma molto
in breve, delle miniere o meglio sull'industria dello zolfo che ha visto
Caltanissetta in primo piano nel panorama mondiale, voglio aggiungere alcune
cose, molto spesso dimenticate.
Dimora di un signore delle miniere nisseno |
L'Ottocento, con
le miniere ha fatto arricchire "i signori dello zolfo" quando anche
il sottosuolo apparteneva al padrone della terra. Poco o niente hanno avuto i
contadini, diventati minatori per necessità, che lavoravano alla "Ciaula"
senza alcuna tutela, in cantieri sottoterra che si "coltivavano" con
la tecnica di "camere e pilastri" (sic!). Gli incidenti e le malattie
professionali accorciavano gli standard locali di vecchiaia, regalando così
alla città vedove, orfani e una misera sopravvivenza ai superstiti.
I primi anni del
Novecento hanno visto crescere un movimento sindacale dei lavoratori le cui
giuste rivendicazioni hanno ridato dignità al lavoratore del sottosuolo e una
forte coesione a tutto il mondo del lavoro nisseno.
![]() |
La zolfara - R. Guttuso |
Nel dopoguerra,
con gli interventi di Stato e della Regione sono migliorate le condizioni di
sicurezza e le pensioni dei minatori ma la produzione di zolfo già non serviva
più. La chiusura conseguente delle miniere, in Sicilia, prevedeva il
mantenimento delle più rappresentative per un uso turistico, e la occlusione
degli accessi a tutte le altre rimanenti.
Nessuno si è
ricordato però, che dintorni e piazzali delle miniere, da restituire alle
contigue campagne, andavano bonificati.
Ciò che rimane
da un punto di vista sociale è sotto gli occhi di tutti, non è più riconoscibile una particolare
connotazione di una “nissenità” riconducibile all'esercito di minatori che vi
erano in città. Persino gli antichi oggetti più comuni usati per il lavoro del
minatore, come la lampada a carburo, sono oramai una rarità da museo.
Le
"mitiche" miniere molto esaltate da tutti, un po' come l’eldorado di
Caltanissetta, se ricordate immedesimandosi di chi vi ha lavorato, forse, non
saranno più così mitiche. Anche i luoghi di quel duro e pericoloso lavoro, in
un qualche modo così come si trovano sono solo non scelte, emblematiche del degrado
e dell’incuria di cui vergognarsi. La cultura che potevano esprimere quei siti,
invece, è più riconducibile ad un modello di civiltà del recupero dei luoghi da
un punto di vista naturalistico che non ad un “muro del rin-pianto” per la
scheletricità dei frammenti di un’archeoindustria oramai consegnata alla storia.
Giuseppe Cancemi